Questo racconto, in una versione un po’ più breve, è arrivato secondo al Premio Lupo 2012, un concorso di racconti brevi organizzato da alcuni comuni dei monti Dauni. Il tema era il ritorno dei lupi… ma sotto sotto il racconto parla di tutt’altro.


Nei paesi piccoli a volte non ci si rende conto.

Ti faccio questo esempio: una volta siamo andati in bici fino al paese di là dal ponticello, ci avremo messo tutto un pomeriggio per arrivarci e quando finalmente siamo arrivati era quasi già buio. Lì sono molto più isolati di noi, in confronto potremmo dire che il Paese Nostro è l’ombelico del mondo. Ora, questi quando ci hanno visto hanno cominciato a prenderci in giro e guardarci ridendo, specie le ragazze. Non abbiamo capito subito ma a quanto pare la cosa era questa: trovavano buffo che noi non avessimo il gozzo. Sì sì, sembra incredibile ma a quel paese lì per qualche carenza di vitamine o di potassio o vallo a sapere avevano tutti il gozzo, sembravano dei tacchini eppure erano convinti di essere normali loro e strani noi!

Questo per dire che si capisce come mai per noi la faccenda dei lupi fosse una cosa di tutti i giorni e quindi neppure la notassimo come una cosa anomala. Lo sapevamo, certo, che lupi come quelli che si vedevano al Paese Nostro negli altri posti non c’erano mica, ma la faccenda non ci toccava più di tanto, era sempre stato così e buonanotte.

Anzi, quasi se ne menava vanto, di averci i lupi più cattivi di tutti.

Si faceva la differenza pecore. Ignoravamo che negli altri posti la differenza pecore normale era zero, si credeva che fosse un calcolo standard di chi si dedicava alla pastorizia, come nei grandi magazzini che – oggi che vivo in città lo so – tengono conto in anticipo della differenza taccheggio, e quella roba lì è persa; se per miracolo un mese si ruba sotto la media e la differenza taccheggio la vendono, probabilmente col ricavato ci fanno i fondi neri per pagare le tangenti. Ma queste son cose di città, da noi la vita era più onesta.

Mio zio pastore, per capirci, aveva una differenza pecore poniamo di sette su cento. Se iniziava la stagione con cento pecore, a fine stagione i lupi gliene avevano mangiate sette. Restavano novantatré e a posto così. Se non sei tu la pecora, il calcolo è solo un fatto economico.

Non so chi avesse inventato la differenza pecore, da quando mi ricordo io c’era sempre stata; ma quel che è sicuro è che a farla diventare una faccenda precisa e si può ben dire ufficiale era stato Cappuccetto. Cappuccetto era il soprannome del sindaco; lo trovavi tutte le mattine al bar della piazzetta, dove aveva piazzato su un muro una lavagna con scritta la vigente differenza pecore. Entrava con l’aria mezza sonnacchiosa e chiedeva come prima cosa «un cappuccetto», cioè un cappuccino in tazza piccola, che in città si chiamerebbe marocchino – da qui il nomignolo.

Quando aveva finito il cappuccetto, Cappuccetto chiedeva l’attenzione di chi stava al bar in quel momento e spiegava i conti. Con la spugnetta cancellava la differenza pecore del giorno prima e la scriveva in piccolo in un angolo della lavagna; il barista prendeva nota sull’agenda.

Diceva come prima cosa quanti giorni erano passati da Capodanno. Poi ricordava il totale di quante pecore contavano tutti i greggi del paese, e se qualcuna nell’ultimo giorno era morta di cause naturali o per mano di macellaio si faceva la sottrazione. E tutti questi conti li scriveva fitti fitti col gessetto.

A questo punto si passava a contare quante pecore erano state prese dai lupi fino a quel momento. Se era un giorno tranquillo, sorrideva e dava pacche sulle spalle a tutti dicendo che le cose andavano «alla grande» e i lupi forse erano andati finalmente a farsi fottere tutti quanti, scusa la parola. Se però nelle ventiquattr’ore precedenti c’era stato un attacco dei lupi, Cappuccetto faceva la faccia buia e lo annunciava dicendo – poniamo – che al ruscello un lupo si era divorato tre pecore del Damiano; e tutti giù a sospirare e dire: «Povero Damiano». E sempre qualcuno diceva che se le era pappate in un boccone solo, che si è trovato a malapena qualche batuffolo di lana che galleggiava per aria.

Eh sì, questo è un fatto importante per capire che non stiamo parlando di lupi normali. Negli altri paesi i lupi quando c’erano – se c’erano – erano delle bestie cattive, intendiamoci, ma facevano le bestie come Dio comanda. Un lupo normale prende una pecora e la sbrana, le mangia la pancia e le cosce e lascia lì uno straccio di lana e sangue che tu lo guardi, ti sembra un documentario sull’Africa e dici: «Ah, il ciclo della natura». La cattiveria normale si sopporta meglio di quella strana.

I lupi nostri erano strani forte, invece. Una volta ne ho visto uno mangiare un agnellino già abbastanza cresciuto; si avvicinava, era un gigante di lupo, e quel poveretto era così spaventato che non riusciva neanche a muoversi. Si è messo di fronte all’agnello, si è come slogato la mandibola e l’ha aperta così tanto che non ti sembrava un fatto vero, poteva essere un cartone animato. In un attimo aveva finito, la pecora era finita dentro il lupo e lo vedevi con un bozzo gonfio nella pancia che la stava digerendo, come fanno certi serpenti enormi che si mangiano interi anche dei cagnolini, poi dormono due mesi, fanno un rutto e si svegliano più affamati di prima.

Comunque, ti dicevo di Cappuccetto. A questo punto aveva messo giù i numeri che servivano, e siccome finora erano state tutte sottrazioni e addizioni e racconti di fatti successi da poco la gente era riuscita a seguire. Qualcuno era pignolo o magari voleva solo prolungare la parte che si capiva del conto e quindi tirava fuori delle obiezioni e delle aggiunte: «Al signor Pino sono nati cinque agnelli e non li hai tenuti da conto», e giù a discutere e se era il caso correggere il numero; «Roberto si è venduto dieci pecore per quel debito che aveva» e magari c’era proprio lì l’usuraio che si faceva un cicchetto e tutti si voltavano a guardarlo storto.

Il più pignolo di tutti era il Pierino e voleva sempre far le pulci ai conti di Cappuccetto. A lui non piaceva la storia della differenza pecore, diceva che era una gran boiata e che a lasciar correre i lupi si sarebbero mangiati tutto il Paese Nostro. Ogni volta che la differenza pecore saliva, anche di uno zerovirgola, faceva baccano e diceva che la situazione era allarmante e che Cappuccetto si doveva vergognare, che un giorno o l’altro avrebbero dovuto dargli retta eccetera eccetera. Un bel brontolone, te lo dico io, ma forse un po’ ragione ce l’aveva; resta il fatto che a furia di dirci tutti i giorni che la situazione era allarmante ormai non gli si dava più retta e anche se si fosse presentato al bar con una gamba mangiata via l’avremmo mandato a farsi benedire dicendo che esagerava.

Alla fine di questa baraonda, il Cappuccetto faceva un gesto con le mani, come a dire «Adesso buoni che faccio il numero», e faceva le divisioni. Se ti dicessi che mi ricordo com’era il calcolo direi una bugia, ma era un calcolo con una sua logica, perché diceva di cento pecore che uno aveva a Capodanno quante si prevedeva che andassero in bocca ai lupi entro San Silvestro. Naturale che se i lupi per un po’ non attaccavano, il numero scendeva, se attaccavano saliva, ma in questi casi il sindaco diceva che era salito «per un effetto numerico» e state ben a vedere che in una settimana è tornato giù un bel po’; e Pierino si incazzava.

Quando la gente era nervosa perché il numero saliva, lui attaccava la tiritera che eravamo illogici, perché le pecore perse a fare i conti per benino erano in fondo poche, e se volessimo tenerci alla larga dal bosco per paura del lupo ci toccherebbe pascolare le pecore a turno nel campo dietro la chiesa, che è troppo piccolo, e ci andremmo a perdere tutti quanti. Meglio sacrificarne qualcuna e tirare avanti così.

«Oppure se volete» diceva Cappuccetto «sapete cosa vi dico? Si fa un consorzio, i greggi li mettiamo tutti in comune, tiriamo una bella palizzata in mezzo al bosco e ci mettiamo qualcuno a fare la guardia con uno schioppo». Faceva una faccia furba, come se stesse parlando sul serio: «Sì sì, facciamo così se vi va, certo vorrà dire che nessuno ha più le sue pecore e i suoi guadagni, diventa una cosa di tutti e tanti saluti ai lupi». A quel punto c’era sempre quello che diceva «Buoni lì, che se devo mettermi in affari con voialtri finisce che io ci metto le pecore e voi ci mettete la voglia di far nulla; mi tengo ben volentieri le mie pecore, che ne ho pure più degli altri perché il mio babbo si è fatto il mazzo, senza nessuna palizzata e nessun consorzio, meglio che se le mangino i lupi che farmele mangiare da certi furbi che ci sono qua a giocare a briscola». E così finiva a male parole, intanto il sindaco se la rideva, finiva il cappuccetto e se ne andava in municipio a timbrare le carte.

Fatto sta che quell’anno i lupi dovevano avere più fame del solito perché non c’era settimana che la differenza pecore non salisse un bel po’, e c’erano storie terribili di anche dieci, dodici pecore alla volta perdute per gli attacchi del branco. Il sindaco si mostrava preoccupato ma neanche troppo, ché tutto era sotto controllo e d’altronde non c’era altro da fare che incrociare le dita e portar pazienza. Il Pierino un giorno sì e un giorno no prevedeva che i lupi avrebbero attaccato direttamente dentro gli ovili, nella notte. Qualche ragazzo del paese, e io devo dire che ero uno di quelli, faceva il gradasso e diceva che adesso basta, bisognava prendere dei fucili e andare a caccia di lupi; tutti gli davano ragione e la sparavano grossa, ma appunto solo di sparar grosso al bar erano capaci, perché sparare davvero o non erano capaci perché il dottore aveva detto che erano astigmatici, o erano troppo vecchi ma se avessero avuto la nostra età allora sì, o dovevano sposarsi a breve ed era meglio non correr rischi ma gli scapoli potevano farsi avanti, o l’avrebbero fatto anche subito però mica da soli, loro ci stavano a condizione che ci stessero anche gli altri. Insomma, si sarà capito che i fucili sono stati usati anche quell’anno per la caccia alla lepre e ai fagiani, ma per i lupi nessuno li ha tirati fuori.

Te la faccio breve anche se è una storia che ci ha stracciato l’anima per mesi. Una mattina il sindaco ha smesso di fare il conto della differenza pecore, dicendo che creava soltanto allarmi inutili nella gente del paese. Addirittura ha preteso che la lavagna venisse levata dal bar e si è presentato tutto rosso in faccia con in mano un’ordinanza stampata che diceva che la lavagna andava consegnata subito al Comune. Il barista si è opposto, si è venuti alle mani e sono arrivati i carabinieri dal paese di fianco, perché quelli del Paese Nostro quella mattina non rispondevano al telefono (si è poi saputo che avevano tirato tardi in osteria la sera prima e non erano ancora andati in caserma).

Si sa che quando in certe faccende ci mette il naso un forestiero, sbucan sempre fuori delle magagne o delle cose non troppo in ordine. A quanto pare c’è una legge che gli attacchi dei lupi vanno denunciati alla forestale, cosa che noialtri ci s’era sempre guardati bene dal fare per non avere gente di fuori che si immischiasse. Cappuccetto è andato nelle grane.

Ci siamo trovati tutti al municipio, c’è stata una specie di assemblea con un gran casotto. Quando si capiva qualcosa è perché parlavano solo in tre contemporaneamente. Per farsi capire meglio, ma soprattutto per impedire che quel che dicevano gli altri venisse capito, tutti stavano in piedi. Cappuccetto invece una volta tanto ha parlato poco, si vedeva che non sapeva bene cosa dire. Di fianco a lui era seduto un signore che abitava in paese ma conoscevamo poco, faceva l’agronomo in città e veniva solo nel fine settimana a godersi l’aria buona.

Il sindaco ci ha presentato l’Agronomo, dicendo che era una persona «stimabilissima» e che se gli abusi «involontarissimi» che aveva compiuto lo costringevano alle dimissioni, allora avrebbe detto al prefetto di mettere quello lì come commissario straordinario. L’agronomo ha fatto un mezzo sorriso a labbra chiuse, facendo di sì con la testa da dietro gli occhiali, e ha detto che lui studiava scientificamente questi problemi e quindi avrebbe saputo risolvere la faccenda della differenza pecore. Questo ci ha tranquillizzato un po’ tutti e siamo andati a dormire.

Cappuccetto non è andato in prigione come diceva maligno Pierino, ma si è dimesso di suo. L’Agronomo è stato fatto commissario, che è come il sindaco ma solo per un po’. Ha tolto la vecchia lavagna nera e ne ha messa una nuova bianca, che si scrive col pennarello, perché ha detto che era più moderna e che il gesso gli dava l’allergia alle mani. Con ‘sto pennarello scriveva piccolo piccolo e faceva tutti i conti da solo e dava il risultato della differenza pecore con anche tre numeri dopo la virgola, per fare il preciso.

La differenza pecore andava male più o meno come prima, ma a vedere l’Agronomo far tutti quei conti alla virgola ci sentivamo già tutti più tranquilli. Girava la voce che stesse preparando con quelli della forestale una soluzione intelligentissima al problema dei lupi.

I dubbi sono cominciati a venire un giorno che finiti i conti l’Agronomo si è girato a guardarci negli occhi, si è tolto gli occhiali e facendo la faccia scura ci ha detto che la situazione non stava affatto migliorando e bisognava fare dei sacrifici difficili. Ora non mi ricordo bene il discorso, ma la cosa sicura è che delle frasi così belle e sagge non si erano mai sentite al Paese Nostro se non a Messa. Cappuccetto faceva sempre il buffone, questo invece si vedeva che era abituato a occuparsi di affari davvero molto seri – così pensavamo quasi tutti. L’unico a prendere in giro i paroloni dell’Agronomo e pure le pause che faceva tra una parola e l’altra, manco a dirlo, era Pierino. Ma se negli ultimi giorni di Cappuccetto sindaco parecchi iniziavano a considerarlo uno che la vedeva giusta, ora era tornato a sembrare a tutti quanti uno che voleva solo romperci le uova nel paniere, per non dir di peggio.

Ad ogni modo, finché si stava sul generale tutti erano d’accordo, ma quando si è capito quali fossero i sacrifici concretamente non ci piacevano per niente. La prima idea dell’Agronomo era stata quella di prendere conigli, galline, gatti e addirittura cani che la gente teneva in casa o in cortile, portarli nel bosco e legarli a degli alberi, in modo che i lupi si mangiassero quelli invece delle pecore. Ci fu una mezza rivoluzione, specie quelli che avevano animali domestici erano scandalizzatissimi dall’idea di dover dare Fufi o Birba in pasto ai lupi! L’Agronomo ha ritirato la proposta, ma i bimbi del paese erano convinti che fosse un modo per imbrogliarli e portar via le bestie di nascosto, quando loro dormivano. E così un giorno i bambini hanno preso tutti i cuccioli e li hanno portati in un posto segreto, che poi noi ragazzini più grandi abbiamo scoperto subito che era una malga abbandonata dove andavamo ogni tanto con le ragazzette più sveglie. Per fortuna che li abbiamo trovati, tra l’altro, perché i marmocchi li stavano curando così bene che erano già mezzi morti di fame.

La seconda idea era quella di spostare il paese. Diceva l’Agronomo che conosceva una ditta di un amico suo specializzata in prefabbricati, che con una spesa assolutamente ragionevole poteva traslocare un intero paese di piccole dimensioni dal cucuzzolo di una collina a quello della collina di fronte. L’idea aveva il suo perché, in particolar modo per il titolare della ditta, ma i paesani non ne volevano sapere. I più anziani dicevano che piuttosto di lasciare dove erano sempre vissuti si facevano mangiar vivi dai lupi; e quando lo han detto l’Agronomo ha sorriso di un sorriso cattivo.

La terza idea, l’unica che è passata, era quella di spegnere i lampioni, di notte. C’era in primo luogo uno scopo di risparmio, così c’erano meno tasse comunali e si compensava un po’ la continua perdita di pecore. Pierino diceva che era illogico, perché così la notte i lupi potevano avvicinarsi senza essere visti. L’Agronomo però demoliva questa teoria spiegando che i lupi, al contrario, sono attirati dalle luci delle città, quindi spegnendole bla bla bla. Ora a ripensarci non ci avrebbe dovuto sconfinferare tanto, perché i lupi non risulta che ci siano neanche a Parigi, se era una questione di luce c’erano già i branchi a ululare fuori dai teatri del can can can.

A proposito di ululare, quando la differenza pecore era ormai diventata alta alta, tipo che una pecora su due non tirava l’anno, quasi ogni notte si sentiva ululare. Era un ululato che metteva una fifa pazzesca, perché cominiciava come il verso di un cane ma finiva che sembrava il grido di un matto.

La quarta idea non ce l’hanno detta, l’hanno fatta e basta.

Una notte, tutto buio per la manfrina del risparmio, mi sono svegliato che saranno state le tre. Sentivo delle voci strane parlare in piazzetta, proprio sotto la mia finestra. Guardo fuori e vedo la cosa più brutta della mia vita. Non la racconto quasi mai perché passo per scemo, ma ormai sono arrivato a questo punto e tanto vale dirla, poi ciascuno veda lui se crederci o no.

Insomma, guardo giù e c’era l’Agronomo che parlava con Cappuccetto e con altri due. Ma gli altri due li guardo meglio e vedo che hanno una pelliccia. Anzi, anche il sindaco e il commissario hanno una specie di pelliccia addosso. I vestiti e la faccia sono i loro, ma le gambe e le braccia sono coperte di pelo grigio. Mi devo tappare la bocca con la mano per non urlare quando vedo che i due con cui parlano non hanno la faccia. Al posto della testa hanno un muso enorme di cagnaccio.

Sono ancora alla finestra con una paura da farmela addosso, anzi per dirla tutta me la sono proprio fatta, quando l’Agronomo allarga le braccia, solleva la testa alla luna e io vedo che la sua faccia sta diventando anche quella un grugno di lupo mannaro, e lancia un urlo bestiale che mi fa piangere e scappare.

Tutto il paese si è riempito di lupi, grossi come tori, che correvano a quattro zampe ma anche a due come le persone. Cercavo di svegliare mia nonna, ma quella era sorda e lenta; sono corso fuori dalla porta dietro e mi sono nascosto in legnaia a guardare, con la paura di muovere un capello.

I lupi sfondavano le porte, entravano nelle case. La gente inizia a svegliarsi e a gridare, ma sono pochi, la maggior parte dorme e quando si sveglia è già nella pancia dei mostri. Vedo un gatto bianco che fa la gobba e soffia, un lupo gli ride in faccia e se lo divora con un solo colpo di mandibola, mandandolo giù intero. Non mi ricordo sangue, solo qualche grido, il bagliore delle fauci e il legno degli usci che si sfasciava con una zampata.

Cappuccetto e l’Agronomo indicavano le case da rastrellare alle altre belve, sembravano loro i capi.

Un garage si è spalancato, un fanale ha sparato la luce in faccia a me e ai lupi, un motore rombava. Era la moto del Pierino, con sopra lui che mandava il sindaco e gli altri lupi a farsi fottere, come si dice, e ci dava di gas travolgendone tre o quattro. Le bestie non sono riuscite a corrergli dietro ed è scomparso tra le case di pietra.

Credo che è lui che mi ha dato il coraggio. Quando ho visto la strada sgombra, mi sono morso la lingua e sono corso fuori dal nascondiglio, fuori dal Paese Nostro, verso la strada provinciale che porta in valle. Forse anche il Pierino si è salvato, ma ormai sarà morto da tanti anni. Come me, avrà cambiato nome; o magari l’hanno pescato i lupi appena ha girato l’angolo con la moto, mentre si girava indietro per fare il gesto dell’ombrello.

Penso di essere oggi l’unico sopravvissuto, l’unico che sa la storia giusta. Quella falsa l’avrai letta sul giornale.


Lo facciamo davvero.

Avevo cercato il finto stupore più credibile dal mio catalogo di espressioni umane e me lo ero dipinto sulla faccia. Noi siamo bravissimi a simulare. Homo homini lupus, senz’altro, ma se ci camuffiamo bene, fidatevi, finisce anche che Lupus homini homo.

«Ma va’?» dissi al vecchio. «Questa storia è straordinaria, la deve assolutamente mettere per iscritto!»

Lo facciamo davvero, come con la nonna della fiaba.

Lui era compiaciuto ma un po’ turbato da quel che aveva rievocato. La proprietaria del baretto ci aveva interrotto dicendo che stava chiudendo. Mi ero offerto di accompagnarlo a casa in macchina.

Lo facciamo davvero, ma non puoi veramente aprirci la pancia e saltare fuori come la nonna della fiaba.

L’ho fatto al parcheggio, nella penombra. Non ha avuto tempo neanche di capire. Quando serve, noi andiamo ai fatti senza troppe chiacchiere.

L’ho mangiato in un solo boccone. Lo facciamo davvero.

Siamo in città anche noi, cosa credete? Abbiamo la patente, il Bancomat, un abbonamento alla vostra stessa palestra. Nelle rubriche dei nostri telefonini ci sono i numeri di tutti gli assessori.

La carne ovina, alla lunga, stufa.