Quanto è grande il proletariato?
C’è un gigantesco gruppo sociale che include miliardi di esseri umani accomunati da alcuni elementi fondamentali:
- hanno tutti la stessa posizione nella produzione: sono gente che per campare si affitta agli imprenditori che li comandano e li retribuiscono con un salario;
- hanno tutti problemi molto simili nel rapportarsi con la vita economica della società di cui fanno parte: devono contrattare il salario col loro datore di lavoro (che a volte è il governo), devono preoccuparsi di come riuscire ad ottenere una pensione, temono i licenziamenti o il peggioramento delle condizioni di lavoro imposto dall’alto, la loro vita dipende dall’andamento economico dell’azienda per cui lavorano (che a volte non è un’azienda vera e propria ma è uno Stato), producono “cose” su cui possono raramente dire la loro e che vengono vendute a qualcun altro (e il ricavato non va a loro)…
- hanno la spiacevole ma esatta sensazione di “far andare avanti la baracca” ma che siano altri ad ottenere i bocconi migliori;
- hanno (o avrebbero, ma magari è proibito o pericoloso) un modo fondamentale per lottare per i propri interessi (o diritti): scioperare.
È davvero così importante dividere questa gente tra chi lavora in fabbrica e chi lavora in ufficio? Chi sostiene questo in genere non ha mai lavorato né in fabbrica né in ufficio, perlomeno non di recente: negli ultimi decenni il lavoro in fabbrica è sempre più simile ad un lavoro di ufficio e viceversa. Un operaio spesso ha una postazione fissa, dove sta seduto tutto il tempo e talvolta il suo compito consiste nel manovrare manopole, pulsanti ecc. Gli impiegati, di contro, non hanno quasi mai dei compiti molto di concetto che possono svolgere in indipendenza: devono spostare carte, scrivere email, compilare moduli e sbrigare pratiche in modo molto meccanico; le procedure sono ben definite, ciascuno è solo un piccolo ingranaggio di un meccanismo molto complesso ed alienante. Questo vale sempre di più anche per lavoratori intellettuali altamente qualificati, come programmatori, biologi, progettisti.
Dobbiamo, comunque, guardare altrove, queste riflessioni sono sociologia spicciola e per certi versi ci distraggono. Un’insegnante di liceo ed un muratore si vestono in modo diverso, parlano con uno stile diverso, sudano in misura diversa, hanno orari e calendari di lavoro molto diversi, ma se metti una casa al posto di un’aula, una cazzuola al posto di una lavagna, il caposquadra al posto del preside, avrai, dal punto di vista del ruolo sociale (che è quello che conta veramente), due casi simili, due membri diversi della stessa classe. Nessuno dei due deve pagare lo stipendio o il salario a qualcun altro, entrambi ricevono il proprio una volta al mese. Anche il reddito dei due sembra piuttosto diverso, ma lo è molto meno della differenza di reddito tra l’insegnante ed un grande azionista di un’azienda importante.
Quanti sono i membri di questa classe sociale al mondo? Non è un dato facile da recuperare, bisogna lottare un po’ con le statistiche. Non è forse curioso che su Internet si trovi facilmente che il 21 giugno 2006 il numero dei cristiani avventisti del Settimo Giorno al mondo era 16.811.519, mentre non si riesca a scoprire in un attimo quante persone al mondo sono lavoratori salariati, magari anche accontentandosi di una cifra meno precisa? Ad ogni modo, il calcolo è stato in qualche modo fatto, e con un po’ di rielaborazione si riesce ad avere una buona stima. L’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO) ha prodotto per il 2005 una serie statistica su 107 Paesi, per un totale di 1.140.112.517 persone economicamente attive, un po’ più di un miliardo di abitanti del pianeta, dunque. Aggregare questi dati a livello globale non è facilissimo, ma ci ho provato. Queste persone sono state classificate dall’ILO in vari modi, ma la suddivisione che interessa a noi è quella in 6 “pseudoclassi” sociali:
- i dipendenti, employees, che sono il 60,02% della popolazione attiva considerata;
- i datori di lavoro, employers, che sono il 2,89%;
- i lavoratori in proprio, own-account workers, che sono il 17,14%;
- i soci di cooperative di produzione, members of producers’ cooperatives, che sono l’1,01%;
- i lavoratori che contribuiscono ad un’attività economica di proprietà di un familiare, contributing family workers, che sono molti, il 9,10%;
- chi non rientra chiaramente in nessuna di queste categorie, workers not classifiable by status, che va a costituire poco più del 2% dell’insieme.
Tra questi 6 raggruppamenti, i proletari (operai industriali, braccianti agricoli, salariati del terziario ecc.), si trovano nel primo e nel quarto, che sommati raggiungono il 61%. In questo 61% tuttavia si trovano tutti coloro che ricevono uno stipendio, inclusi quindi i quadri e i dirigenti delle aziende (private e pubbliche). Queste figure non fanno parte del proletariato: i dirigenti sono letteralmente acquistati dalla proprietà attraverso la condivisione dei profitti, e di fatto grazie alla distribuzione delle azioni e a numerosi altri privilegi sono assimilati nella classe dominante dei Paesi capitalisti. Spesso per semplicità e per non utilizzare parole poco comuni si dice “salariati” o “lavoratori dipendenti” per indicare i proletari, ma secondo Marx una condizione aggiuntiva per essere proletari era ricevere solo una parte del valore che si era prodotto: questo non è sicuramente il caso degli amministratori delegati delle grande aziende multinazionali, i cui livelli di reddito peraltro hanno una dinamica del tutto indipendente da quella delle maestranze. I quadri, infine, si collocano in una posizione intermedia, danno ordini ma ne ricevono anche altrettanti, prendono qualche briciola in più ma pur sempre una miseria rispetto ai vertici della piramide: tutto li spinge ad identificarsi con la piccola borghesia. Quanti sono dunque coloro che percepiscono uno stipendio ma non stanno alla base della gerarchia, nella massa dei proletari? In un Paese come l’Italia, le statistiche ufficiali dicono che circa ogni 17 proletari c’è un quadro, e che ogni 2 quadri c’è un dirigente (sembrebbe che ci siano troppi dirigenti, ma bisogna considerare che nell’apparato statale, e in particolare in Italia, c’è chiaramente un eccesso di dirigenti!). Se le proporzioni sono grosso modo queste anche altrove, dal 61% bisogna scendere al 56%: resta comunque la maggioranza. La borghesia vera e propria (quella che usa forzalavoro altrui) è sicuramente costituita dai membri del secondo gruppo (dove però va qualsiasi datore di lavoro, da chi ha un solo dipendente a chi ne ha migliaia), più i dirigenti, che secondo i calcoli precedenti non sono neanche il 2%: arriviamo a circa il 4,5%. La piccola borghesia, che possiamo considerare divisa in ceto medio urbano (artigiani, professionisti, quadri ecc.) e contadini, è la classe più eterogenea e quindi più difficile da definire: conviene definirla per differenza come tutti quelli che restano e se la matematica non è un’opinione non può superare il rimanente 39,5%. Questa cifra, contrariamente a quanto non di rado viene raccontato, non è tenuta così alta dai Paesi avanzati, ma da quelli meno industrializzati. Infatti oscilla attorno al 7-8% negli USA o nel Regno Unito, sale verso il 25% per Paesi con una struttura economica più debole come l’Italia o la Spagna, e solo nei Paesi del Terzo Mondo raggiunge e a volte supera il 50% grazie al contributo decisivo dei piccoli proprietari rurali.
Non dimentichiamoci tuttavia che questi dati riguardano solo 107 Paesi; al mondo ci sono molti più Paesi, dai 190 ai 200 (secondo lo status attribuito a posti come Taiwan, il Kosovo, la striscia di Gaza e la Cisgiordania, Città del Vaticano ecc.). In particolare, nelle statistiche dell’ILO, che coprono tutti i Paesi più industrializzati e molte decine di Paesi arretrati, non figurano, a parte piccolissimi Stati insulari, Paesi importanti come la Cina (anche se ci sono alcune sue parti: Hong Kong e Macao), l’India, la Nigeria, l’Iraq. In effetti, siccome l’ILO stima che la popolazione attiva al mondo sia composta da 2,8 miliardi1 di persone, nelle statistiche in questione mancano 1,7 miliardi di persone attive. Per stabilire la composizione di classe di questo miliardo e 700 milioni, non possiamo fare altro che estendere, cum grano salis, le percentuali trovate prima. Naturalmente, Paesi come la Cina e l’India, sebbene possano contribuire ad arricchire l’insieme dei proletari con una notevole iniezioni di braccianti, potrebbero avere una composizione sociale con meno operai, anche se non sembra ormai assolutamente così ovvio (si dice che Cina ed India siano “la fabbrica del mondo”): sicuramente però hanno meno impiegati. Per il momento assumiamo il rischio di eccedere un po’ per eccesso nella stima della dimensione del proletariato, tanto posso anticipare che nella prossima approssimazione che sarà necessario fare si eccederà sicuramente molto di più in direzione opposta.
Il 56% di 2,8 miliardi è 1,6 miliardi, il numero di proletari attivi al mondo. Per i borghesi otteniamo una cifra di circa 120 milioni. I ceti restanti si aggirano attorno agli 1,1 miliardi di persone.
Gli abitanti del pianeta, tuttavia, sono approssimativamente 6 miliardi e mezzo, in gran parte economicamente inattivi: giovani, pensionati, casalinghe, carcerati e in piccola parte mendicanti e altre persone che per diversi motivi non lavorano nemmeno saltuariamente. Nel concetto “sociologico” di classe sociale, che non è un concetto puramente statistico, ogni persona appartiene ad una classe, non solo quelle economicamente produttive. L’idea è che la classe rappresenti un “ambiente sociale”; in realtà si parla spesso del fatto che una famiglia più che un singolo individuo appartenga o non appartenga ad una determinata classe sociale. Se vogliamo dividere l’intero genere umano in classi, dobbiamo ancora una volta estendere le percentuali che abbiamo; con questa estensione compenseremo ampiamente l’eventuale approssimazione per eccesso fatta in precedenza, perché supporremo che in media le persone attive di ogni classe sociale abbiano lo stesso numero di familiari inattivi: in verità è piuttosto chiaro che le famiglie proletarie sono mediamente più numerose e più ricche di casalinghe e altri individui inattivi, quindi questa volta stiamo facendo una stima per difetto dell’entità mondiale del proletariato.
Il 56% di 6,5 miliardi è 3,64 miliardi; il proletariato è composto, su scala mondiale, da più di 3 miliardi e mezzo di esseri umani. La classe borghese, il cui strato superiore detiene il potere quasi ovunque, include solo 300 milioni di persone. La middle class includendo i contadini conta nelle proprie fila 2,6 miliardi di persone.
Sorpresa: il proletariato è il grosso dell’umanità. Come mai non è lui a comandare?
Commenti dei visitatori
Non tutti i proletari sono tali
s.b. • 10/2/2007
Il fatto è che non tutti i proletari sono tali: molti sono in realtà semi-proletari, in quanto proprietari dell’appartamento (e anche di qualcos’altro). Ora, gli operai che decideranno di investire il loro Tfr nei fondi, diventeranno anche proprietari mobiliari oltre che immobiliari…
Ciao, s.b.
Cos'è un proletario?
Mauro Vanetti • 12/2/2007
Ciao SB. Come dici correttamente sul tuo sito, “qui si sta parlando della casa di abitazione, e quindi di un bene (immobile) di consumo, e non di un mezzo di produzione”. Appunto. Mi sembra più seria l’obiezione sui fondi pensionistici, lì sì che si tenta di trasformare milioni di proletari in piccoli azionisti. In entrambi i casi ad ogni modo mi pare che vada usato il senso della misura. Se un proletario ha una piccola percentuale del proprio reddito che dipende dall’andamento della Borsa, fatico a considerarlo membro a pieno titolo della classe dominante, e lui stesso difficilmente si opporrà per esempio ad un rialzo dei salari per paura di far svalutare le proprie azioni. Sulla casa di proprietà, poi, una famiglia proletaria si preoccuperà relativamente del valore della propria abitazione finché non dovrà pensare a venderla, ed essendo la prima casa se la venderà sarà per comprarne un’altra e quindi l’andamento generale del mercato immobiliare gli importerà fino ad un certo punto (se il mattone ha un rialzo, la tua casa vale di più ma anche comprarne un’altra costerà di più e quindi siamo daccapo); faccio inoltre notare che la rendita non è il profitto, ma questo è un dettaglio minore.
Per concludere, il tuo ragionamento è corretto nell’analizzare in che modo l’assetto imperialistico dei Paesi più avanzati “corrompa” il proletariato ostacolandone la presa di coscienza ecc. Queste sono cose che sappiamo dai tempi di Lenin, ma Lenin stesso non riteneva certo che il ripiegamento riformista, per quanto incoraggiato dai tentativi di cooptazione della classe subalterna (o di una sua parte, la “aristocrazia operaia”) da parte della classe dominante, fosse un esito inevitabile nei Paesi imperialisti. Ad ogni modo, se per i rivoluzionari la conquista dei favori del ceto medio (per esempio garantendo un indennizzo ai piccoli azionisti nel caso di una nazionalizzazione) era un tempo fondamentale per ragioni puramente tattiche (la piccola borghesia era gigantesca e non si poteva vincere senza aver ottenuto almeno la sua neutralità), oggi in alcuni Paesi lo diventa per ragioni più profonde. Mi sembra insomma che le tue osservazioni pertinenti al momento di ragionare sulla tempistica e sulle modalità degli sviluppi rivoluzionari in Paesi come l’Italia o gli USA; non inficiano però il discorso complessivo. Si potrebbe dire che la contraddizione da te descritta ricorda e va a sostituire, nell’epoca odierna e per i Paesi più avanzati, la più preoccupante contraddizione proletari-contadini che nell’epoca precedente e per i Paesi più arretrati ha avuto un ruolo determinante nel generare infinite difficoltà al movimento rivoluzionario.